Alberto Burri, artista della materia

Oggi è il 14 gennaio, e non è un giorno come gli altri.

Siamo nel 1968. Immaginate un paese della Sicilia, uno di quei tanti paesi ancora sospesi fra bellezza e abbandono tipo quelli descritti da Bufalino o Sciascia, dove negli stretti vicoli ancora si respira un misto di umanità e desolazione. Quei paesi dove trovare una sedia davanti la porta ci racconta di storie di accoglienza ma anche tanta solitudine.

Ecco, ora immaginate anche un terremoto, un violentissimo terremoto che in pochi secondi spazza via non solo le case, ma anche l’anima di un intero territorio con le sue tradizioni. Questa è la storia di Gibellina e della sua gente. 14 gennaio 1968…

Ora saltiamo al 1984. Il sindaco di Gibellina, paese ormai interamente ricostruito a pochi chilometri di distanza dal vecchio insediamento, chiama a raccolta una moltitudine di artisti per arricchire di bellezza e di arte il nuovo paese. Fra questi, Alberto Burri considerato ormai da anni un maestro della materia. Ne ha capito il potenziale a livello di linguaggio, trasfigurando lo scarto ed elevandolo all’interno di una nuova poetica.

Ma non accetta di operare sul quel territorio ricostruito. Quale miglior esempio di intervento invece quello di trasformare le macerie di Gibellina in un opera che la riconsegnasse a nuova vita? Non solo per rinnovarne la memoria, ma come strumento di comunicazione e narrazione.

«Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Una stradina tortuosa, bruciata dal sole, si snoda verso l’interno del trapanese fino a condurci, dopo chilometri di desolata assenza umana, ad un cumulo di ruderi. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea. […] Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento. Ecco fatto!»

Nasce così il Cretto di Burri, definito la più bella colata di cemento del mondo. Burri negli anni 70 aveva già realizzato delle opere con la tecnica del cretto, opere che ricordavano la fessurazione delle terre argillose, ma erano in scala minore per vari musei internazionali. A Gibellina decise invece di creare una opera di Land Art per ridare vita e dignità a un paese ormai sparito anche dalle carte geografiche. Dopo tanti anni le macerie erano ancora lì, decise quindi di compattarle e ricoprirle col cemento, come un enorme velo a custodia di un passato ferito.

I lavori iniziati nel 1984 furono interrotti nel 1989, dopo aver coperto 60.000 mq degli 80.000 previsti. Il Cretto verrà completato solo nel 2015 rispettando interamente il progetto originario di Burri, scomparso invece nel 1995. I vicoli bianchi, che danno l’impressione di profonde ferite, sono gli stessi del centro storico del paese prima del terremoto. Sembra una enorme cicatrice che segue il profilo collinare del vecchio insediamento. Di Gibellina, Burri non vuole cancellarne il passato, ma custodirlo e tramandarlo. Un messaggio di speranza che vede l’arte sopravvivere anche alla morte.

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